Ennesimo morto
ammazzato a Marianella,
nei pressi di Scampia. Pasquale
Romano, 30 anni, residente a Cardito,
è stato crivellato da quattordici colpi di pistola nei pressi della casa della
sua ragazza e secondo le prime ricostruzioni si tratterebbe di un errore, un
ennesimo fatale scambio di persona.
Alcuni titoli fotografano la
sciagura, registrano coi soliti “si presume che” alcune circostanze, per cadere
nel dimenticatoio il giorno dopo, quando i titoli sono cambiati. Non nascerà
nessun approfondimento,nessun
momento pubblico di riflessione, né sdegno (locale o
nazionale), anche se questo ne vale della reputazione - dell’innocenza - di
persone; come quando a fine giugno scorso, sono morte ammazzate in poche ore
tre persone, ed evidentemente tra una rullata e l’altra di notizie, non si è
avuto abbastanza tempo per dire che uno di questi non fosse implicato in
vicende criminali,
era vittima innocente di
camorra.
D'altro canto, per l’audience e
l’auditel raccontare la morte di boss o affiliati ha un peso
editoriale/mediatico maggiore di quella degli innocenti. Anche sugli schermi
della Rai si dà più spazio alla morte del camorrista Marino,
boss degli scissionisti, o anche del luogotenente Modestino
Pellino (O’
Miccill), che all’innocente Andrea Nollino morto
poco prima, per il semplice fatto di essersi trovato nel pieno di una
sparatoria, nei pressi del suo bar.
Il vero scandalo sarebbe nel
chiamarla ancora “informazione pubblica”,
quando in realtà si sa bene che l’informazione televisiva e dei mass media
utilizza sempre più un linguaggio funzionale ad un certo mercato, soprattutto
quando si parla di argomenti come la “camorra”. Un
linguaggio sciatto, superficiale che segue la moda, calcando una certa patina
eroica: un linguaggio finalizzato al marketing e quindi per definizione
manicheo, superficiale, leggibile al telespettatore medio che non conosce
queste realtà, servendosi di termini generici, vuoti e divenuti archetipi
collettivi “ucciso a Gomorra”;
facendo apparire la repressione
alle mafie come una semplice cattura di latitanti, senza
minimamente soffermarsi a raccontare le contraddizioni e le specificità del
territorio, senza dare la voce davvero a chi vive il territorio
(forse perché non vende?).
Quando si offre un microfono alla
vittime lo si fa sempre, seguendo un malcostume, creando personaggi televisivi
che devono interpretare ruoli (e infatti non a caso offrono soldi e viaggi); si
tende insomma asoffermarsi
sul sentimentalismo raccapricciante, sulla superficie, parlando
in termini generali contro il male (camorra), piuttosto che raccontare equilibri e dinamiche criminali,
con nomi cognomi e partendo dalla narrazione di inchieste giudiziarie. Gli
operatori dell’informazione, si sono infatti dimenticare di sottolineare (se
non con tre righe di ansa) che un paio di giorni fa è stato arrestato
uno dei più pericolosi latitanti del clan Moccia, che – si
pensa - gestiva oltre Casoria anche
la stessa Caivano.
Magari – anche se questo può
annoiare il telespettatore medio - qualche cittadino, potrebbe chiedersi come
mai, in quello che viene chiamato triangolo dell’usura, non si spaccia droga
(se non nel parco Verde di Caivano). Magari si potrebbe anche spiegare meglio
cosa significa che Giuseppe Alfano (conosciuto sul territorio come Pepp
o’ Lupo o Lup e’ notte) era uno dei “senatori” del clan
Moccia. Un clan che secondo le forze dell’ordine ha una struttura verticistica,
più simile ad una cupola siciliana che alla camorra napoletana,
utilizza figure intermedie chiamate “senatori”, per comunicare tra vertici del
clan e affiliati. Il clan gestisce ancora
l’eredità con
cartello della nuova famiglia (l’alleanza anti cutoliana) per metodi
intimidatori. E, se sono divenuti uno dei clan più longevi dell’intera
geografia criminale campana, è perché hanno compreso che per ottenere potere
bisognava seguire tre imperativi: organizzazione, consenso e
abbassamento della visibilità (non
esporsi mediaticamente). Insomma esattamente l’opposto di quello che può
credere un normale telespettatore.
La
violenza è un mezzo,
non un fine. Il fine è il controllo e potere, si sono accorti che
abbassando la visibilità e creando consenso sul territorio si riesce ad
ottenere il potere in modo più oculato (NB. per chi è intenzionato a querelare,
si veda a pubblicazione Dia, e operazione Vortice ndr) .
Come ha dichiarato il collaboratore di giustizia D’Angelo,
confermato dall’ordinanza di custodia cautelare del 2010, i diversi sottogruppi
criminali sono uniti e ben collegati, al punto che quando devono andare a fare
estorsione, preferiscono prendere “facce nuove”, affiliati che vengono da altri
comuni in modo che la vittima – per un'eventuale denuncia - non riconosca
immediatamente l’estorsore (il quale provenendo da altri comuni, non è presente
neppure nella tabella di fotografie presentata dalla FFOO, che generalmente
registra solo i nomi di pregiudicati presenti sulla zona).
Organizzazione
più che forza fisica.
Quando devono minacciare o avvicinare la vittima, come dichiarato
sempre dallo stesso D’Angelo, non si avvicinano direttamente a lui
se non la conoscono, ma utilizzano componenti della famiglia come intermediari,
per difendersi da eventuali denunce. Il consenso, invece, l’hanno
ottenuto, chiudendo per esempio storicamente il mercato della droga ad
Afragola (addirittura , come ampliamente confermato dalle forze
dell’ordine, vi sono state gambizzazioni a chi ha trasgredito quest’ordine), in
questo modo abbassano la visibilità con le forze dell’ordine, per poter
controllare meglio la zona.
Un
clan che si è “imborghesito” e che, come confermato dalle indagini conclusi con
l’operazione Vortice, ha fatto un salto di qualità perché riesce ad
abbassare visibilità, grazie ad una serie di sottogruppi criminali ben
controllati, subappaltando quindi le azioni criminali a questi
diversi sottogruppi (hanno un’autonomia gestionale, e prendono una percentuale
sugli appalti che arriva anche al 50%). Un clan che, come evidenziato
dall’ultimo rapporto semestrale Dia, conta su elevata quantità di
denaro e in questo modo riesce facilmente a militarizzarsi dopo le retate. I
vertici del clan sono interessati alle azioni imprenditoriali di primo
livello, investendo e riciclando soprattutto da decenni a Roma e
nel basso Lazio (in tv ne parlano solo quando uccidono qualche
affiliato). La capacità di riuscire a riciclare, ad ogni modo, è
direttamente proporzionale ad un operazione di “marketing” costruita su studi
legali e negli uffici rispettabili. Ed è abbastanza grave come l’informazione sia
pigra, per così dire, su determinate tematiche, anzi addirittura ci sono
articoli che riportano notizie false, facilmente sementabili con documenti
ufficiali. Come l’articolo apparso
sul Corriere del Mezzogiorno, dove non si contestualizza affatto la
vicenda, e sembra quasi dare spazio ad un monologo senza contraddittorio e
senza appurare la veridicità delle notizie.
Questo
sui giornali, mentre sul territorio il chiacchiericcio di affiliati riesce a
importare l’ideologia del clan (“Non si spaccia perché vogliono bene ai
ragazzi”) oppure si fa passare l’idea che magicamente scompaiono camorristi
dal territorio e si spostano tutti a Roma (“Quelli pensano solo a
Roma”). Ora si potrebbe parlare per pagine (anzi per libri) di queste cose, ma
evidentemente non interessa a nessuno, neanche ai telespettatori, più attenti a
programmi di intrattenimento televisivo. Eppure basterebbe che tutti
parlassero, per capire che Giuseppe, più che un lupo, potrebbe essere
paragonato un animale un po’ più mansueto, magari anche un po’
ridicolo, grottesco.
Basterebbe
interessarsi, capire, comprendere per far scomparire quella metastasi orrenda
che può facilmente essere estirpata senza aver bisogno di eroi o star
televisive. Ma questo, forse, non interessa all’informazione pubblica. E
intanto noi, nel silenzio mediatico, dovremmo continuare a tacere su figure
come quella del signor “Pepp o Lupo”: sia per rispetto, poi perché il clan
Moccia non esiste, ma anche (e soprattutto!) perché veniamo dal territorio.