"Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio, o si fanno la guerra o si mettono d’accordo"

Paolo Borsellino

SPORTELLO SOS GIUSTIZIA

SPORTELLO SOS GIUSTIZIA

COMUNICATO STAMPA LIBERA PRESIDIO AFRAGOLA - CASORIA “Puliamo il Mondo”








COMUNICATO STAMPA

LIBERA

PRESIDIO TERRITORIALE

AFRAGOLA - CASORIA


 Evento
28  E 29  SETTEMBRE 2012


Ricordiamo a tutti i nostri amici che il 28 e 29 Settembre presso la  villa comunale di Casoria, si terrà l’evento 

Puliamo il Mondo


in collaborazione con il 
Comune di Casoria e Legambiente.
 Due giorni dedicati al rispetto dell’ambiente e al comportarsi responsabilmente.
Venerdì 28, inoltre, potrete partecipare gratuitamente al concerto di 

Enzo Avitabile

che dopo il grande successo al Festival del Cinema di Venezia riprende 
il suo tour di concerti.
Noi del Presidio Libera Afragola-Casoria ci saremo con un nostro stand insieme alle cooperative e fattorie sociali

IL VIDEO

e  



IL VIDEO



Venite a trovarci, potrete vedere e acquistare tanti prodotti sani, biologici e che nascono su terreni confiscati alla camorra e riscattati! 



Terre vittoriose che portano frutti di speranza per il nostro territorio che ha bisogno e che chiede una nuova primavera.


Clicca la scritta quì in alto  sottolineata, per accedere alla pagina dove potrai scaricare i fogli della querela, che andranno consegnati in 
"copia originale"
presso il nostro stand.

Vi aspettiamo


www.liberaafragolacasoria.com     email: liberafragolacasoria@libero.it    

UFF. STAMPA: 3204144079


Account Twitter:   @LiberAfragCasor

Account youtube: Libera AFRAGOLA -CASORIA



Torino, Libera è parte civile nel processo Minotauro Sono 75 gli imputati accusati di essere organici alla 'ndrangheta nella provincia piemontese




Torino, Libera è parte civile 

nel processo Minotauro


Sono 75 gli imputati accusati di essere organici alla 'ndrangheta nella provincia piemontese

di Simone Bauducco e Davide Pecorelli 

Libera è parte civile nel processo Minotauro, procedimento intentato contro la ‘ndrangheta operante in provincia di Torino. A stabilirlo è stata la corte che ha sottolineato la soggettività di Libera ed ha rigettato tutte le eccezioni avanzate dalla difesa, sottolineando giuridicamente il diritto di far parte del processo. L’organizzazione criminale di stampo mafioso che la Procura ha individuato tra Torino e provincia lede l’azione di contrasto culturale che l’associazione porta avanti con costanza ed impegno nel territorio. Accettate inoltre le richieste degli enti, nei limiti dell’azione territoriale degli imputati. Per ogni ente, quindi, è stato possibile costituirsi nei confronti degli imputati operanti nella cellula cittadina, la cosiddetta "locale". Diversa l’interpretazione data dalla corte sul “Crimine”, organo della società criminale deputato agli atti violenti per il quale è stata decisa l’indipendenza operativa sovralocale.



IL VIDEO




Solo per il Comune di Leinìcittà fortemente interessata dall'inchiesta Minotauro tanto da ottenere il Commissariamento per infiltrazione mafiosa – le eccezioni della difesa sono state accolte: l’ente non potrà costituirsi parte civile per vizi di forma nella presentazione della domanda. Tramonta il tentativo di alcuni legali della difesa di spostare il processo a Reggio Calabria. La tesi esposta non ha trovato accoglimento nella Corte: il procedimento rimarrà nel capoluogo piemontese. Libera continuerà a presidiare l’aula bunker del carcere “Le Vallette” accompagnando la Giustizia nella ricerca della verità.

Fonte :Liberainformazione.org 26 Ottobre 2012


Dalle terre dei casalesi parte il “pacco alla camorra” che attraversa l’Italia passando per l’Unione Europea






Dalle terre dei casalesi parte il “pacco alla camorra” che attraversa l’Italia passando per l’Unione Europea

Partirà dal casertano il prossimo 30 ottobre il “pacco alla camorra”, un’iniziativa che dimostra concretamente la possibilità di contrapporre alla sopraffazione e alla violenza della criminalità organizzata, l’etica e la legalità. 

di Ornella Esposito


Fare un pacco, nel gergo napoletano, significa dare una fregatura, imbrogliare qualcuno. È proprio questo l’intento di una rete di 16 imprese profit anticamorra e cooperative sociali che, insieme al Comitato Don Peppe Diana (il prete freddato a Casal di Principe nel 1994, ndr), ha deciso di “fregare” la camorra.
Come? Restituendole il pacco ricevuto (subìto) della privazione della libertà e della sopraffazione con un altro, pieno di gustosissimi prodotti agricoli coltivati nelle terre confiscate e nei beni comuni.

IL VIDEO



L’iniziativa “Facciamo un pacco alla camorra”, partirà il 30 ottobre prossimo dalle terre dei casalesi e raggiungerà Roma, Milano ed altre città italiane fino ad arrivare al Parlamento Europeo dove una rappresentanza della rete delle 16 imprese parlerà alla presenza del Presidente UE, Martin Schulz.
Dietro il pacco, ovviamente, c’è molto di più: un progetto ampio che da anni e con molta fatica, per le inerzie istituzionali e le minacce della malavita, le imprese del territorio coraggiosamente portano avanti. L’idea è quella di promuovere una filiera produttiva etica partendo dalle attività sociali nate nei luoghi di morte, e trasformarli in luoghi di vita e di reinserimento lavorativo delle persone svantaggiate.



Fonte: serviziocivilemagazine.it  Sabato 27 Ottobre 2012

COMUNICATO STAMPA LIBERA CAMPANIA La distanza delle istituzioni



COMUNICATO STAMPA 

LIBERA CAMPANIA

La distanza delle istituzioni


Durante un incontro sull'allarme rifiuti tossici, il sacerdote anticamorra 
(e antidiscarica) don Maurizio Patriciello si rivolge a Carmela Pagano, prefetto di 

Caserta, chiamandola "signora".
 L'appellativo scatena l'ira del Prefetto De Martino che ammonendo il sacerdote e lo incolpa di aver offeso le istituzioni presenti.

Il coordinamento dell’associazione Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie, condivide in parte il richiamo al rigore espresso dal signor Prefetto di Napoli nel riportare l’attenzione dei cittadini ad avere nei confronti delle istituzioni e degli uomini che le rappresentano un grande rispetto, è anche  questo un modo di risvegliare dal “coma etico” in cui anni di cattivi maestri ci ha fatto precipitare.
Al tempo stesso, vediamo più che rispettoso l’atteggiamento di don Maurizio, che viene pressato dalla emergenza salute che tanti lutti sta portando tra i suoi parrocchiani, e non conoscendo i protocolli e le procedure erra nella forma, anche se con grande umiltà e serenità accoglie l’aspro richiamo.


Cogliamo anche l’occasione per fotografare da questo episodio la grande distanza che si sta determinando tra cittadini ed istituzioni, che sono sempre più vissute dalla maggior parte della popolazione come  sorde ai bisogni e alle difficoltà che questo particolare momento storico sta imponendo.
Avvertiamo anche il rischio di una severità che in generale possa essere incoerente e discontinua, fin troppo formalistica e debole contro alcuni veri mali della nostra democrazia come la corruzione o gli atteggiamenti di contiguità che ledono il prestigio delle nostre istituzioni.



C’è un grido di dolore, che chiede attenzione, vicinanza, sinergia, che attraversa la nostra terra, e dice di fare presto e di fare bene perché la gente sta morendo, colpita dalle conseguenze dei rifiuti tossici delle ecomafie, dalla incompetenza e mala fede di tanti dei nostri sindaci e consiglieri comunali che per bramosie personali permettono per i loro tornaconti le più nefaste attività, dalla violenza  fatta stile di vita della camorra che ancora impazza, cresce e si rafforza, nonostante l’eccellente lavoro fatto dalle forze di polizia e dalla magistratura , nelle nostre realtà.



Il sentimento della paura e della rassegnazione al brutto comincia a fare sempre più conquiste, è questo un momento in cui abbiamo bisogno più che mai di sinergie, di nuovi modelli culturali, di far nascere anche in queste terre la speranza che possiamo vivere in città belle, pulite, sociali.



Abbiamo bisogno di istituzioni forti nei valori della Costituzione, coerenti nel mandato affidato.



Abbiamo bisogno di legalità democratica e di giustizia sociale, per liberare Napoli, e l’Italia dalle mafie e dalle corruzione.






Napoli 20 ottobre 2012
Coordinamento provinciale di Libera Napoli

Parlare di Camorra nei media. Sul delitto di Marianella e la violenza come mezzo




Parlare di Camorra nei media. 
Sul delitto di Marianella e la violenza come mezzo

di Vincenzo Fatigati 

Libera Giovani Presidio Territoriale  Afragola-Casoria


Ennesimo morto ammazzato a Marianella, nei pressi di Scampia. Pasquale Romano, 30 anni, residente a Cardito, è stato crivellato da quattordici colpi di pistola nei pressi della casa della sua ragazza e secondo le prime ricostruzioni si tratterebbe di un errore, un ennesimo fatale scambio di persona. 
Alcuni titoli fotografano la sciagura, registrano coi soliti “si presume che” alcune circostanze, per cadere nel dimenticatoio il giorno dopo, quando i titoli sono cambiati. Non nascerà nessun approfondimento,nessun momento pubblico di riflessione, né sdegno (locale o nazionale), anche se questo ne vale della reputazione - dell’innocenza - di persone; come quando a fine giugno scorso, sono morte ammazzate in poche ore tre persone, ed evidentemente tra una rullata e l’altra di notizie, non si è avuto abbastanza tempo per dire che uno di questi non fosse implicato in vicende criminali, 

era vittima innocente di camorra.

D'altro canto, per l’audience e l’auditel raccontare la morte di boss o affiliati ha un peso editoriale/mediatico maggiore di quella degli innocenti. Anche sugli schermi della Rai si dà più spazio alla morte del camorrista Marino, boss degli scissionisti, o anche del luogotenente Modestino Pellino (O’ Miccill), che allinnocente Andrea Nollino morto poco prima, per il semplice fatto di essersi trovato nel pieno di una sparatoria, nei pressi del suo bar.
Il vero scandalo sarebbe nel chiamarla ancora “informazione pubblica”, quando in realtà si sa bene che l’informazione televisiva e dei mass media utilizza sempre più un linguaggio funzionale ad un certo mercato, soprattutto quando si parla di argomenti come la “camorra”. Un linguaggio sciatto, superficiale che segue la moda, calcando una certa patina eroica: un linguaggio finalizzato al marketing e quindi per definizione manicheo, superficiale, leggibile al telespettatore medio che non conosce queste realtà, servendosi di termini generici, vuoti e divenuti archetipi collettivi “ucciso a Gomorra”; facendo apparire la  repressione alle mafie come una semplice cattura di latitanti, senza minimamente soffermarsi a raccontare le contraddizioni e le specificità del territorio, senza dare la voce davvero a chi vive il territorio (forse perché non vende?).
Quando si offre un microfono alla vittime lo si fa sempre, seguendo un malcostume, creando personaggi televisivi che devono interpretare ruoli (e infatti non a caso offrono soldi e viaggi); si tende insomma asoffermarsi sul sentimentalismo raccapricciante, sulla superficie, parlando in termini generali contro il male (camorra), piuttosto che raccontare equilibri e dinamiche criminali, con nomi cognomi e partendo dalla narrazione di inchieste giudiziarie. Gli operatori dell’informazione, si sono infatti dimenticare di sottolineare (se non con tre righe di ansa) che un paio di giorni fa è stato arrestato uno dei più pericolosi latitanti del clan Moccia, che – si pensa - gestiva oltre Casoria anche la stessa Caivano.
Magari – anche se questo può annoiare il telespettatore medio - qualche cittadino, potrebbe chiedersi come mai, in quello che viene chiamato triangolo dell’usura, non si spaccia droga (se non nel parco Verde di Caivano). Magari si potrebbe anche spiegare meglio cosa significa che Giuseppe Alfano (conosciuto sul territorio come Pepp o’ Lupo o Lup e’ notte) era uno dei “senatori” del clan Moccia. Un clan che secondo le forze dell’ordine ha una struttura verticistica, più simile ad una cupola siciliana che alla camorra napoletana, utilizza figure intermedie chiamate “senatori”, per comunicare tra vertici del clan e affiliati. Il clan gestisce ancora l’eredità con cartello della nuova famiglia (l’alleanza anti cutoliana) per metodi intimidatori. E, se sono divenuti uno dei clan più longevi dell’intera geografia criminale campana, è perché hanno compreso che per ottenere potere bisognava seguire tre imperativi: organizzazione, consenso e abbassamento della visibilità (non esporsi mediaticamente). Insomma esattamente l’opposto di quello che può credere un normale telespettatore.
La violenza è un mezzo, non un fine. Il fine è il controllo e potere, si sono accorti che abbassando la visibilità e creando consenso sul territorio si riesce ad ottenere il potere in modo più oculato (NB. per chi è intenzionato a querelare, si veda a pubblicazione Dia, e operazione Vortice ndr) .
Come ha dichiarato il collaboratore di giustizia D’Angelo, confermato dall’ordinanza di custodia cautelare del 2010, i diversi sottogruppi criminali sono uniti e ben collegati, al punto che quando devono andare a fare estorsione, preferiscono prendere “facce nuove”, affiliati che vengono da altri comuni in modo che la vittima – per un'eventuale denuncia - non riconosca immediatamente l’estorsore (il quale provenendo da altri comuni, non è presente neppure nella tabella di fotografie presentata dalla FFOO, che generalmente registra solo i nomi di pregiudicati presenti sulla zona).
Organizzazione più che forza fisica. Quando devono minacciare o avvicinare la vittima, come dichiarato sempre dallo stesso D’Angelo, non si avvicinano direttamente a lui se non la conoscono, ma utilizzano componenti della famiglia come intermediari, per difendersi da eventuali denunce. Il consenso, invece, l’hanno ottenuto, chiudendo per esempio storicamente il mercato della droga ad Afragola (addirittura , come ampliamente confermato dalle forze dell’ordine, vi sono state gambizzazioni a chi ha trasgredito quest’ordine), in questo modo abbassano la visibilità con le forze dell’ordine, per poter controllare meglio la zona.
Un clan che si è “imborghesito” e che, come confermato dalle indagini conclusi con l’operazione Vortice, ha fatto un salto di qualità perché riesce ad abbassare visibilità, grazie ad una serie di sottogruppi criminali ben controllati, subappaltando quindi le azioni criminali a questi diversi sottogruppi (hanno un’autonomia gestionale, e prendono una percentuale sugli appalti che arriva anche al 50%). Un clan che, come evidenziato dall’ultimo rapporto semestrale Dia, conta su elevata quantità di denaro e in questo modo riesce facilmente a militarizzarsi dopo le retate. I vertici del clan sono interessati alle azioni imprenditoriali di primo livello, investendo e riciclando soprattutto da decenni a Roma e nel basso Lazio (in tv ne parlano solo quando uccidono qualche affiliato). La capacità di riuscire a riciclare, ad ogni modo, è direttamente proporzionale ad un operazione di “marketing” costruita su studi legali e negli uffici rispettabili. Ed è abbastanza grave come l’informazione sia pigra, per così dire, su determinate tematiche, anzi addirittura ci sono articoli che riportano notizie false, facilmente sementabili con documenti ufficiali. Come l’articolo apparso sul Corriere del Mezzogiorno, dove non si contestualizza affatto la vicenda, e sembra quasi dare spazio ad un monologo senza contraddittorio e senza appurare la veridicità delle notizie. 
Questo sui giornali, mentre sul territorio il chiacchiericcio di affiliati riesce a importare l’ideologia del clan (“Non si spaccia perché vogliono bene ai ragazzi”) oppure si fa passare l’idea che magicamente scompaiono camorristi dal territorio e si spostano tutti a Roma (“Quelli pensano solo a Roma”). Ora si potrebbe parlare per pagine (anzi per libri) di queste cose, ma evidentemente non interessa a nessuno, neanche ai telespettatori, più attenti a programmi di intrattenimento televisivo. Eppure basterebbe che tutti parlassero, per capire che Giuseppe, più che un lupo, potrebbe essere paragonato un animale un po’ più mansueto, magari anche un po’ ridicolo, grottesco.
Basterebbe interessarsi, capire, comprendere per far scomparire quella metastasi orrenda che può facilmente essere estirpata senza aver bisogno di eroi o star televisive. Ma questo, forse, non interessa all’informazione pubblica. E intanto noi, nel silenzio mediatico, dovremmo continuare a tacere su figure come quella del signor “Pepp o Lupo”: sia per rispetto, poi perché il clan Moccia non esiste, ma anche (e soprattutto!) perché veniamo dal territorio. 


Fonte: Redazione Libera Presidio Territoriale Afragola - Casoria

Libera incontra i parenti delle vittime innocenti di criminalità a Casoria




Libera incontra i parenti delle vittime innocenti di criminalità a Casoria 

Nei giorni scorsi una delegazione del Presidio territoriale Libera Afragola- Casoria ha avuto un incontro coi familiari delle vittime innocenti di camorra e violenza efferata  presenti sul territorio di Casoria, in modo da poter organizzare prossimamente una manifestazione di resistenza civica contro l’indifferenza e l’omertà che da troppo tempo è corresponsabile alla criminalità dilagante.  Verrà installata una lapide , proprio nel territorio casoriano, per  ricordare le vite spezzate ingiustamente, sperando che ciò  possa servire a  creare una coscienza collettiva contro le mafie. Abbiamo deciso quindi di  raccontare questi incontri, di rendere in  qualche modo partecipe la cittadinanza, per aiutare a creare quello spirito collaborativo necessario a sconfiggere  il compromesso criminale. Di seguito, una testimonianza del primo incontro avuto: 


 L’abitudine rende sopportabile anche le cose Spaventose (Esopo) 

di Vincenzo Fatigati 
Libera Giovani Presidio Territoriale  Afragola-Casoria



Ti capivo, ma non ti capivo veramente”.   Con queste parole , la signora Antonietta manifesta vicinanza  alla sua amica Rosaria vedova dell’edicolante Antonio Coppola, assassinato circa due anni fa nella sua edicola a Casoria, perché aveva rimproverato il giorno prima un ladro d’uva.

La differenza tra i due livelli di comprensione, consiste nel passare da spettatore di una tragedia a vittima:  lo scorso giugno, proiettili  vaganti hanno stroncato anche  la vita del barista Andrea  Nollino, marito della signora Antonietta. Solo allora, quando ti trovi ad essere vittima di una guerra,  puoi comprendere che quel dolore, per essere davvero compreso, più che essere raccontato  con parole, andrebbe immerso nella quotidiana drammaticità di chi si trova abbandonato dalle istituzioni. Di chi è costretto, all’improvviso, ad affrontare problemi economici, familiari, giganteschi.  Farsi carico di una tragedia che si prolunga nei mille problemi quotidiani.

Da una parte, c’è il solito chiacchiericcio popolare, che semina continuamente malizia e zizzania: sei “colpevole fino a  prova contraria”, il solo fatto di morire così , sotto fuochi di affiliati, significa essere in un certo senso compromesso, e pertanto questo pregiudizio diffamatorio, spegne   lo  scandalo cittadino, che nell'indifferenza contempla la tragedia. 

Nonostante l’innocenza, per il popolino, morire ammazzati è sempre una colpa.  



Dall'altra
 parte, c’è una spaventosa  indifferenza mediatica, che incurante di descrivere un territorio attraverso la lente  di rapporti della Dia, che fotografano la radiografia di una città “ad alto tasso criminale”, si soffermano sulla notizia sensazionalista di sciacalli,  che in cerca di  scoop costruiscono personaggi televisivi, offrendo ai parenti delle  vittime soldi o viaggi.
 Come è successo al padre di Stefano Ciaramella, che disgustato da certe proposte che arrivavano da emittenti nazionali,  custodisce il ricordo di suo figlio  in una foto nel suo portafoglio, 11 anni dopo che fu barbaramente ucciso da un giovane  di Afragola, suo coetaneo, per difendere la sua ragazza. Questo sciacallaggio , e questo doppio registro viene utilizzato anche da certi politici opportunisti, che cinicamente   se ne approfittano, proponendo la candidatura nelle proprie liste politiche ai familiari delle vittime, per semplice marketing, per crearsi quella patina eroica, che serve al loro consenso elettorale. Criminoso. Sfruttare la tragedia per consenso politico.   E in effetti, basta vivere il territorio, per constatare come la retorica di politici si sgonfia, davanti alla banalità con cui vengono accettate queste morti, come  quando due mesi dopo che furono assassinati due vigilanti, Gerardo Citarella e Pino Lotta, da colpi di kalashnikov durante una rapina, proprio poco tempo dopo che la cittadina era già stata colpita dall’omicidio Antonio Coppola l’amministrazione concordò nell’installare l’albero di Natale nei pressi della banca Unicredit, dove era avvenuto l’agguato,   cancellando con l’indifferenza quel sangue vivo di persone innocenti , come denuncia la stessa vedova Coppola. La banalità con cui viene accettato ciò, spesso è corresponsabile. Raccontare, ricordare, ciascuna di queste storie, quei dettagli dimenticati da chi è in cerca di sceneggiature televisive, significa davvero toccare la ferita aperta e sanguinante di un  tessuto sociale lacerato  dalle dinamiche criminali; raccontare la banalità con cui  vittime innocenti sono state colpite,  significa raccontare la narrazione civica di una realtà  che conosce la morte, come parte integrante della vita.  Una sicurezza precaria che si alterna ad uno stato di guerra a seconda degli interessi delle diverse geografie criminali. Un’indifferenza criminosa, che ancora oggi vive, proprio lì, in quei luoghi della tragedia, dove ancora oggi volti noti continuano il malaffare.I nomi degni assassini non hanno ancora un volto anche a causa dell'indifferenza cittadina.
Ritornando allora  al significato autentico delle parole, e non alla retorica di politici in cerca di passerelle televisive, ricordare significa letteralmente “ripassare delle parti del cuore”. Anche se non si può comprendere fino in fondo il dolore di chi vive tragedie umane, si può però cercare di ascoltare, e insieme aiutare, anche con qualche lapida, a mantenere un ricordo vivo che serve non solo a non dimenticare, ma a risvegliare, a sdegnare:   E solo così la gente potrà  finalmente dare un nome e cognomi a quell’uomo di mezz’età , che lì, con i soliti occhiali neri, continua a vendere sigarette abusive di fronte il bar Nollino.


Fonte: Redazione di Libera Presidio Afragola - Casoria 13 Ottobre 2012


Il giornalista-giornalista che vuole raccontare la verità




Il giornalista - giornalista che vuole 

raccontare la verità

di Arnaldo Capezzuto

Raccontare le verità fa paura. Infastidisce il potente di turno, mette in ansia il colletto bianco, fa arrabbiare il mafioso. C’è una “strana” e “interessata” convergenza di generi, trasversale che prova ad agire con efficacia per bloccare il lavoro dei cronisti. Colpire i giornalistisembra diventato dopo  il calcio lo sport più praticato in Italia ma non solo, purtroppo. Gli strumenti adoperati sono diversi ma l’effetto desiderato è sempre lo stesso: far chiudere il taccuino.
Aggressioni fisiche, querele, minacce, pene detentive, condizionamenti, mobbing, allontanamento dalla testata, calunnie. C’è poco da fare, ci sono cronisti che vanno educati”. Si, perché se un giornalista riesce con le sue inchieste a svelare i meccanismi nascosti dietro i fatti diventa pericoloso, antipatico e attaccabrighe. Quel cronista non è controllabile, è una testa calda e può fare più danni di un magistrato, di uno sbirro e di un collaboratore di giustizia.
Il cronista può diventare un vero bastardo. Non ha i tempi della burocrazia, non agisce con la carta bollata, non convoca i testi per interrogarli, non deve rispettare rigide procedure. Il giornalista-giornalista s’insinua, si mimetizza, ascolta e registra: è diretto.  Se c’è odore di notizie diventa un segugio: arriverebbe a vendersi anche i familiari per mettere le mani su informazioni di prima mano.
E’ questo il giornalismo che mette paura. Questo si chiama giornalismo d’inchiesta, tutt’altra forgia dalla mera gestione delle notizie per accontentare tizio, caio e sempronio.
I soliti che affollano tutte le epoche: gli amici degli amici che  diventano i miei di amici. 
La casta è sacra. Perché gli affari, gli intrallazzi, le condotte illecite, le amicizie, le vicinanze, gli scambi tra ambienti lontani ma sempre più vicini devono restare segreti. E’ fondamentale per il vero potere nascondersi e controllare il gioco.
In questo contesto, immaginate un cronista cocciuto, un cronista che mette in fila le cose, le assembla, le smonta, le ricompone e scopre il bandolo della matassa. Poi candidamente scrive il pezzo oppure mette in onda il servizio e spiffera tutto. Capite che diventa un pericolo per i “manovratori”? Capite che il sistema non lo tollera. Capite che per colpa sua tutti sapranno? Parole inanellate, frasi concatenate,documenti spiegati ed ecco che articoli e servizi si trasformano in un detonatore.
Il rischio è enorme. Come fermarli? Come far chiudere quel cazzo di bloc notes? Come rompere l’obiettivo della telecamera? Come rubare gli scatti della digitale?  I giornalisti sono sempre più nel mirino. Solo dall’inizio di quest’anno certifica “Ossigeno per l’Informazione”, l’osservatorio diretto da Alberto Spampinato (suo fratello Giovanni, 25 anni, corrispondente da Ragusa de L’Ora di Palermo e de l’Unità fu ammazzato il 27 ottobre del 1972) il contatore segna 268 casi di cronisti intimiditi. Il termine intimidire è generico e abbraccia una vasta gamma di modalità violente: minacce, colpi di pistola inviati per posta, ordigni sistemati sotto l’auto, raid in redazione, querele, denunce, procedimenti penali temerari, lettere di avvertimento, percosse, pedinamenti, licenziamenti, mancati accrediti giornalistici o esclusione da mailing list istituzionali, boicottaggi vari.
Il quadro è inquietante. Si resta in apnea leggendo il rapporto di Ossigeno del 2011 i giornalisti minacciati in Italia sono stati il 125 per cento in più rispetto all’anno precedente. I casi emersi sono 324, ma sarebbero almeno 10mila secondo l’osservatorio: un giornalista ogni dieci se si considera il totale degli iscritti all’Ordine. Numeri, cifre, statistiche allarmanti che fanno sprofondare il nostro paese in fondo alle classifiche internazionali .
Il problema poi non è la libertà di stampa in senso stretto ma l’agibilità e lo spazio professionale di fare in sicurezza il proprio mestiere ed esercitare il sacrosanto dettame costituzionale dell’articolo 21.
Chi vi scrive il 19 luglio del 2009 e lo scorso 3 ottobre ha fatto condannare in Primo grado ed in Appello due persone che avevano tentato di zittirmi. Lettere anonime, pedinamenti, minacce di morte perché i miei pezzi raccontavano, narravano con dovizia di particolari strategie, incontri, discorsi di camorristi che tra loro tramavano per far saltare un processo in cui era a giudizio un rampollo di una nota famiglia-cosca accusato dell’omicidio di una ragazza di 14 anni, vittima innocente nel corso di un regolamento di conti.
Accanto a me ho avuto l’Ordine dei giornalisti della Campania costituitosi parte civile nei processi, la solidarietà di associazioni e gruppi di volontariato ma per dire il vero pochi colleghi. Si, perché i giornalisti sono strani animali, diffidano da loro stessi. Anzi per uno strano gioco omertoso – parlo di Napoli –  si prendono le mazzate e dicono: “Vabbuò può succedere, andiamo avanti”.
E no. Subire no. Il giornalista non può solo asetticamente riportare i fatti. Se un camorrista, un criminale e in generale chiunque si avvicina, fa uno strano discorso,  minaccia, mette le mani addosso, boicotta forte del suo ruolo ne dovrà pagare le conseguenze davanti alla legge e rassegnarsi a leggere ogni santo giorno le corrispondenze ed i servizi.
Giancarlo Siani, trucidato il 23 settembre del 1985, in un agguato di camorra è morto anche per noi giornalisti. Onorare la sua memoria non significa solo mettere i fiori davanti alla sua lapide oppure distribuire premi nel suo nome. Bisogna farsi carico del suo messaggio di indipendenza, passione e verità attuando  pratiche quotidiane di concreta legalità.

Fonte: Il Fatto Quotidiano 12 Ottobre 2012